pensiero in migrazione

PENSIEROinMIGRAZIONE propone punti di vista, argomenti, approfondimenti, appunti sulle trasformazioni sociali e umane suscitate dai processi migratori, proposte per combattere il razzismo e la xenofobia con gli strumenti della rivoluzione nonviolenta e dello scambio interculturale

12.4.06

NOI SIAMO I POVERI

un libro per capire dove/come vive Easheed:

"NOI SIAMO I POVERI -Lotte comunitarie nel nuovo apartheid"
di Ashwin Desai
Prefazioni di Naomi Klein e Franco Barchiesi (DeriveApprodi, pagg. 192, € 15)

Quando nel 1994 Nelson Mandela fu eletto presidente del Sudafrica, fu proclamata la vittoria sulle politiche razziali. Ma la fine dell’apartheid non portò a un reale cambiamento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione oppressa. Al contrario, le pratiche di segregazione ereditate dal passato si adattarono perfettamente alle istanze di governo del neoliberismo e delle istituzioni sovranazionali. Questo libro vuole raccontare la storia delle lotte che si sono manifestate dopo la cosiddetta sconfitta dell'apartheid. I protagonisti sono i poveri che abitano i luoghi della nuova apartheid. Lontani dallo stereotipo della miseria del continente africano, gli abitanti di tali comunità sono stati artefici di un radicale movimento di opposizione che, con linguaggi e forme di resistenza inediti e dirompenti, ha saputo rivendicare con forza migliori condizioni di vita. Noi siamo i poveri è l’entusiasmante ritratto di un’altra Africa. È l’epopea di una rivolta imprevista, capace di far nascere da indigenza e miseria nuove relazioni sociali e di dar vita a immediate collettività politiche. È una storia narrata dalla voce corale di una comunità di miserabili da cui, come in un romanzo, emergono affetti, passione, rabbia e dolore. Il racconto di un altro volto della povertà che diventa l’irresistibile richiamo a un’altra politica.

MIO NONNO AVEVA 7 FIGLI (di Rasheed)

Mio nonno aveva 7 figli, 2 bianchi e 5 scuri come me.
Venne in Sudafrica dall’India in cerca di una vita migliore.
Dapprima venne solo. Poi, da ogni viaggio in patria tornava portando uno dei figli con sé, finché non furono qui tutti e due i maschi. Non si preoccupò mai di portare qui le 3 figlie, sarebbe poi stato necessario occuparsene come si deve e cercare loro un buon marito. Lasciò tutti questi grattacapi alla moglie, in India.
La nonna non volle mai lasciare il suo villaggio per venire in Sudafrica, ma lasciò libero il nonno di prendersi un’altra moglie qui, se lo desiderava.
E lui così fece. Si prese in moglie una vedova che aveva già due figli.
Questa nonna era bianca, ebrea.
Ecco com’è che mio nonno si ritrovò con 7 figli, di cui i due maggiori bianchi e gli altri 5 “non bianchi”.
Potè prendersi un’altra moglie perché era musulmano, come me, e la nostra religione ci permette di avere più mogli, anche se l’uso è quasi scomparso, soprattutto qui.
Ma la mia famiglia non è stata sempre musulmana.
Erano Hindu. Anche il cognome era diverso, non è quello che portiamo adesso. Fu il nonno di mio nonno a convertirsi, lui e tutta la sua famiglia. Ma subì le persecuzioni degli Hindu, che uccisero tutti i membri della famiglia.
Solo uno dei figli più giovani riuscì a scampare alle persecuzioni, e cambiò il suo cognome in modo da non essere immediatamente identificato. Essere riconosciuto avrebbe voluto dire essere ucciso. Quest’uomo era mio nonno, e il cognome che lui scelse è quello che noi portiamo ancora oggi. Questo succedeva quando India e Pakistan erano un unico Paese.
Ma torniamo a mio nonno. Poté prendere un’altra moglie perché era musulmano, e poté prendersi una moglie bianca perché l’apartheid non c’era ancora a quel tempo.
Così mio padre crebbe con due fratelli bianchi, e l’educazione che fu loro data impediva di fare differenze o di considerarsi fratellastri. Erano tutti uguali.

Mio padre e i suoi fratelli crebbero e presero moglie.
Mio padre prese moglie in India e la portò qui.
Quando mia madre si sposò e lasciò l’India aveva 14 anni, o forse 13; parlava correntemente l’hindi e altre quattro lingue, ma la vita qui all’inizio qui per lei fu difficile.
Dapprima i miei genitori vissero in Wynberg, nella casa dei nonni. Lì mia madre poteva parlare solo con mio padre, con il suo fratello nato in India e con il nonno. Non poteva comunicare con la nonna o con gli altri parenti, perché non parlava né inglese né afrikaans.
Poi pian piano imparò, l’afrikaans da noi bambini perché era la lingua in cui studiavamo, e poi anche l’inglese.
Ad un certo punto la famiglia dovette trasferirsi, perché alcune zone vennero dichiarate “per bianchi”. Vennero espropriati della casa di Wynberg; il governo disse che era necessario abbattere delle case per farci passare l’autostrada, la M3, ma l’unica casa ad essere abbattuta fu quella dei miei genitori, tutte le altre rimasero. Quello era l’apartheid.
I miei genitori si trasferirono in Claremont e poi, quando io avevo 5 anni, in Rylands, la township abitata dagli Indiani.
Di quel tempo ricordo che andammo a fare visita allo zio, il fratello maggiore di mio padre, che viveva in Woodstock.
Woodstock era una zona per bianchi e non era possibile per un non bianco andarci liberamente. Bisognava avere il lasciapassare, dimostrare che si lavorava per qualche bianco in zona, altrimenti erano guai. Mio padre prese me e i miei fratelli e ci portò lì in visita allo zio. Ovviamente non avevamo il lasciapassare, e sarebbe stato più semplice se lo zio fosse venuto a trovare noi in Rylands, visto che i bianchi potevano andare dove volevano. Ma lo zio era più grande di mio padre e, secondo le nostre consuetudini, è il fratello più giovane che deve andare a trovare il più anziano, in segno di rispetto.
Mio padre arrivò davanti alla porta di casa dello zio, circondato da noi bambini. Bussò e bussò, ma nessuno venne ad aprire. Io avevo 5 anni a quel tempo, ma lo ricordo perfettamente.
Noi sapevamo benissimo che in casa c’era qualcuno, ma nessuno venne ad aprire.
Poi mi ricordo di quando il mio fratello maggiore, Mohammed, superò l’esame di maturità così brillantemente da guadagnarsi il diritto di andare all’università… S’iscrisse all’UCT, alla facoltà di architettura. Era uno dei pochissimi non bianchi lì.
UCT era un’istituzione per bianchi, ma lui era stato così brillante che aveva il grande privilegio di andarci. I miei genitori erano così orgogliosi, non si capacitavano. A volte di sera andavano fino a UCT con l’auto e si mettevano a guardare gli edifici, il panorama, congratulandosi a vicenda perché il loro figlio maggiore poteva studiare lì. Per loro era come un sogno.
E mio fratello cosa fece? Si fece bocciare, non superò gli esami del primo anno!
Mio padre disse che non avrebbe pagato le spese universitarie per il secondo anno e lui dovette lasciare l’università. Si mise a vendere enciclopedie porta a porta. Riuscì a mettere via dei soldi e più in là si iscrisse di nuovo all’università, questa volta alla facoltà di storia.
Oggi Mohammed è ancora a UCT, al dipartimento di storia.
Adesso la insegna.

7.4.06

TRISTE CAMPAGNA ELETTORALE PER GLI IMMIGRATI

mentre il sito ww.todocambia.org
è in ristrutturazione, ospito volentieri il seguente testo:

Accade ovunque: le campagne elettorali sono i periodi col più alto tasso di bugie, promesse fasulle, omissioni e… cattiverie. Nella patria di Pinocchio si raggiungono livelli stratosferici. Per i cittadini non europei, che già subiscono la negazione del diritto di voto, si aggiunge la beffa: quasi nessun politico si esime dal prenderli in giro o denigrarli. Gli esponenti di destra sono in cima alla classifica, ma anche altri vogliono piazzarsi nella top-ten dei politicanti anti-immigrati.
Discorsi demagogici, silenzi, giri di parole incomprensibili, dichiarazioni insensate e menzogne hanno scandito gli ultimi giorni, che sono stati anche quelli della maxi-ipocrisia delle procedure per il “decreto flussi”. Migliaia di immigrati in coda agli uffici postali hanno tentato di utilizzare questa possibilità (l’unico incerto varco che consente di superare legalmente le frontiere italiane, blindate dalla legge Bossi-Fini). Verrebbe da parlare di “segreto di Pulcinella” se non sapessimo che da questa pessima faccenda dipende la stessa speranza di vita di tante persone…
Infatti, il “decreto flussi” (un complicato e assurdo meccanismo, introdotto ai tempi dei ministri Turco e Napoletano e reiterato ogni anno, che stabilisce quanti lavoratori stranieri residenti all’estero possono accedere al mercato del lavoro italiano, sulla base delle richieste dei padroni nostrani, definendo di volta in volta “quote” e procedure) ha catalizzato le aspettative di centinaia di migliaia di immigrati che lavorano già qui e che hanno provato a partecipare a questa vergognosa “lotteria”: solo le richieste presentate per prime (in base a ora, minuti e secondi) verranno prese in considerazione. Chi non riceverà l’agognato “nulla osta”(alcune stime parlano di oltre 300 mila persone) sarà condannato a continuare a vivere in “clandestinità”, nello sfruttamento del lavoro nero, nell’assoluta precarietà esistenziale.
Qualed che sarà il governo dopo le elezioni chiederemo l’immediata regolarizzazione di questi lavoratori. Hanno già dimostrato di essere socialmente integrati, di essere in possesso di professionalità e competenze, esplicitamente richieste dal “mercato del lavoro”.
Negar loro una possibilità di esistenza un po’ più serena e sicura sarebbe solo un atto di crudeltà.
Chi si candida a governare questo paese deve prendere subito impegni chiari e positivi in tal senso.
Diversamente, faremo di tutto affinché non riesca a governare… né ora né mai.